Il Centro Scaligero degli Studi Danteschi e della Cultura Internazionale vanta un meravigliosa quanto pregiata biblioteca di opere storiche di grande prestigio. Volumi di grande valore storico e letterario che gestisce con la massima cura e il massimo rispetto.
A cura di Ennio Sandal
Si potrebbe ritenere inane lo sforzo di avvicinare persone del nostro tempo, spesso distratte e frastornate da eccessivi messaggi, alla poesia e al pensiero di Dante. Portarle nel silenzio di una sala per ascoltare concetti e termini, per confrontarsi con idee spesso distanti da quelle usuali, per immergersi in un mondo dello spirito e dimenticare la quotidiana materialità in cui si è costretti a vivere può dimostrarsi una sfida vincente. Il Centro scaligero degli studi danteschi sta proponendo e sperimentando da oltre dieci anni attività qualificate che ruotano intorno alla figura di Dante, alle sue opere, al suo pensiero, alla sua poesia. A Verona, città dantesca, queste offerte sembrano raccogliere un largo consenso e rispondere, quindi, ad alcune esigenze sentite che i livelli istituzionali non si preoccupano di soddisfare.
Con questo volume le Lecturae Dantis scaligerae – la più importante delle proposte che il Centro promuove da dodici anni – vedono la seconda uscita a stampa. Il volume che qui si presenta è ricco di interventi da parte di studiosi noti, stimati e riconosciuti, a livello nazionale e internazionale, quali competenti nelle rispettive discipline letterarie, come Marco Ariani, Lucia Battaglia Ricci, Enzo Cecchini, Alessandro Ghisalberti, Marziano Guglielminetti, Giuseppe Ledda, Gilberto Lonardi, Eugenio Ragni, Ada Ruschioni, Piermario Vescovo.
Il volume é acquistabile dal sito della Editrice Antenore.
Marziano Guglielminetti
Risale a quattro decenni fa il mio primo contributo sul tema propostomi per questo incontro. Il saggio Con Dante attraverso il Novecento, stampato a Bari nel ’69, per i tipi dell’Adriatica Editrice, nacque al seguito delle celebrazioni del ’65, cui assistetti a fianco di Giorgio Bàrberi Squarotti (il nostro “comune maestro”, Giovanni Getto, aveva appena licenziato, nel ’64, le Letture dantesche, e stava per ristampare gli Aspetti della poesia di Dante, entrambi presso Sansoni). Il secondo mio contributo, in occasione delle celebrazioni del Duemila, si collocava all’interno di una vicenda critica nel frattempo maturatasi, mercé contributi specifici di molti ed anche autorevoli studiosi. Per quello che mi concerne da vicino, devo innanzitutto constatare che la messe di nuovi documenti, linguistici e critici, apparsi dal ’65 ad oggi ha logicamente fatto invecchiare le informazioni da me allora fornite. Non per questo ritengo di dover alterare del tutto la linea d’interpretazione allora suggerita, imbarcandomi con «piccioletta barca» in un mare troppo vasto, come pur si converrebbe in sede di bilancio di un secolo.
Nel frattempo mi pare doversi prendere atto di quel che è agevole fare utilizzando i nuovi mezzi a disposizione. Mi limito a segnalare l’opportunità di ricorrere al prezioso Vocabolario della poesia italiana del Novecento, allestito da Giuseppe Savoca nel ’96 per la Zanichelli; il vocabolario non solo consente di lavorare sul concreto, ma, soprattutto, pone le premesse di una ricerca trasversale di notevole interesse, nel senso che potrebbe essere consultato parallelamente alle concordanze dantesche. Non è pane per i miei denti, lo so bene; mi ciberei, invece, con maggior gusto degli eventuali prodotti che sortissero da un’altra, e per ora ipotetica, ricerca trasversale, da condursi nelle note di lettura lasciate da scrittori a margine o dentro il loro Dante, a partire da quello usato a scuola: quando il divino poeta è affidato al «pedagogo fiacco», per dirla con Gozzano: il Gozzano dell’apposito Quaderno dantesco, a suo tempo reso noto da me e da Mariarosa Masoero.
Gilberto Lonardi
Una precisazione per cominciare: con i tre nomi che chiudono il titolo di questa conversazione voglio anche indicare il molto cui qui non si guarda. Accenno almeno a un’esclusione: da Blake a Pound a Eliot, tanto per fare tre altri nomi dopo quelli del titolo, quasi non parlerò di quanto Dante appartenga anche, tra i moderni, a poeti e culture non-italiane. È un limite che mi sono dato; un limite necessario - ma increscioso. Per esempio: proprio tre autori come questi che ho appena nominato contano parecchio almeno per un italiano tra i massimi del Novecento, Montale: e molto ha contato, per lui, proprio il loro dantismo.
Ma cominciamo da più lontano, dai primi dell’Ottocento. Dall'inizio, più o meno, della modernità. Nel 1809 Caspar David Friedrich dipinge il Monaco in riva al mare, un quadro sconcertante e rivoluzionario. La striscia di una duna in primo piano, più in là e più in basso un mare sordo, sotto un cielo pesante, che occupa i cinque sesti della tela. Il monaco è una virgola: il soggetto-uomo, caro a una millenaria tradizione, è qui un incidente o quasi. Intanto, quelle entità prime – mare, cielo – risaltano nella loro terribilità, nella loro cifra di sublime: non umanizzabili, non umanistiche. Che distanza dal mondo pittorico coevo, tra neo-classicismo e classicismo.
Il vero soggetto, è stato detto, è qui l’infinito, o il vuoto. Heinrich von Kleist parlò subito di «sterminatezza». Ebbene, non dimenticando quel quadro, guardiamo al nuovo sublime che attinge, dieci anni dopo, dunque nel 1819, L’infinito di Leopardi. Dove l’io, il soggetto-uomo, esiste, sì, e tanto, come sovrano organizzatore di una strategia contemplativo-intellettiva, del mirare (sedendo e mirando…) e comparare (vo comparando…) nel silenzio, per giungere infine al (20)naufragio («e il naufragar m’è dolce in questo mare»): ma dove, come in Friedrich, la figura umana come oggetto di raffigurazione non c’è.
Ci si muove anche qui tra essenze prime, tra natura e oltre-natura - gli spazi, i silenzi, il tempo e i tempi e l’eterno -, anche se il punto di partenza è quotidiano e di comune esperienza: un colle, una siepe, poi le fronde, la voce del vento…
Ma ecco, la lirica cui mi ha condotto il discorso – L’infinito leopardiano – è anche, con quel suo ultimo verso in particolare, un esempio di rinascita “alla grande” di Dante tra i moderni. Per una traccia, per un lampo; non di più. Un anno prima, 1818, Leopardi guarda a Dante più frontalmente, e a lui intitola la sua seconda canzone, Sopra il monumento di Dante. Là è il pathos dell’esilio quello che fa scattare il sublime. Quella distanza dell’esilio non è presto più solo di Dante nella canzone del '18, è la lontananza, la morte lontana, in un gran mare di neve, di esuli senza nome: i figli della derelitta Italia mandati a un destino di morte da Napoleone, nuovo padrone di un paese anche più disgraziato, afferma Leopardi, rispetto a quello in cui visse Dante.
Una precisazione per cominciare: con i tre nomi che chiudono il titolo di questa conversazione voglio anche indicare il molto cui qui non si guarda. Accenno almeno a un’esclusione: da Blake a Pound a Eliot, tanto per fare tre altri nomi dopo quelli del titolo, quasi non parlerò di quanto Dante appartenga anche, tra i moderni, a poeti e culture non-italiane. È un limite che mi sono dato; un limite necessario - ma increscioso. Per esempio: proprio tre autori come questi che ho appena nominato contano parecchio almeno per un italiano tra i massimi del Novecento, Montale: e molto ha contato, per lui, proprio il loro dantismo.
1. Ma cominciamo da più lontano, dai primi dell’Ottocento. Dall'inizio, più o meno, della modernità. Nel 1809 Caspar David Friedrich dipinge il Monaco in riva al mare, un quadro sconcertante e rivoluzionario. La striscia di una duna in primo piano, più in là e più in basso un mare sordo, sotto un cielo pesante, che occupa i cinque sesti della tela. Il monaco è una virgola: il soggetto-uomo, caro a una millenaria tradizione, è qui un incidente o quasi. Intanto, quelle entità prime – mare, cielo – risaltano nella loro terribilità, nella loro cifra di sublime: non umanizzabili, non umanistiche. Che distanza dal mondo pittorico coevo, tra neo-classicismo e classicismo. Il vero soggetto, è stato detto, è qui l’infinito, o il vuoto. Heinrich von Kleist parlò subito di «sterminatezza». Ebbene, non dimenticando quel quadro, guardiamo al nuovo sublime che attinge, dieci anni dopo, dunque nel 1819, L’infinito di Leopardi. Dove l’io, il soggetto-uomo, esiste, sì, e tanto, come sovrano organizzatore di una strategia contemplativo-intellettiva, del mirare (sedendo e mirando…) e comparare (vo comparando…) nel silenzio, per giungere infine al (20)naufragio («e il naufragar m’è dolce in questo mare»): ma dove, come in Friedrich, la figura umana come oggetto di raffigurazione non c’è. Ci si muove anche qui tra essenze prime, tra natura e oltre-natura - gli spazi, i silenzi, il tempo e i tempi e l’eterno -, anche se il punto di partenza è quotidiano e di comune esperienza: un colle, una siepe, poi le fronde, la voce del vento…
Ma ecco, la lirica cui mi ha condotto il discorso – L’infinito leopardiano – è anche, con quel suo ultimo verso in particolare, un esempio di rinascita “alla grande” di Dante tra i moderni. Per una traccia, per un lampo; non di più. Un anno prima, 1818, Leopardi guarda a Dante più frontalmente, e a lui intitola la sua seconda canzone, Sopra il monumento di Dante. Là è il pathos dell’esilio quello che fa scattare il sublime. Quella distanza dell’esilio non è presto più solo di Dante nella canzone del '18, è la lontananza, la morte lontana, in un gran mare di neve, di esuli senza nome: i figli della derelitta Italia mandati a un destino di morte da Napoleone, nuovo padrone di un paese anche più disgraziato, afferma Leopardi, rispetto a quello in cui visse Dante.
Piermario Vescovo
L’estate scorsa a Venezia Gian Carlo Alessio (mentre stava mangiando un gelato alle Zattere) mi ha chiesto se ero disponibile – in una data in quel momento molto lontana – per una conferenza su Dante e il teatro contemporaneo. Non avevo capito se ‘contemporaneo’ si riferisse a Dante o a noi: al teatro come oggetto storicamente assente nei cosiddetti “secoli senza teatro”, ma non privo di pertinenza culturale (a partire dall’evidenza di un poema che si intitola Comedìa) o agli utilizzi recenti di Dante sulla scena. Contemporaneo, naturalmente, andava inteso come ‘del Novecento’, secondo quanto poi mi ha informato la lettera di richiesta, ma il dubbio iniziale mi aveva intanto fatto riflettere – nell’incertezza – su un filo che forse raccorda due orizzonti così, apparentemente, lontani.
Se si va a vedere l’Enciclopedia Dantesca alla voce ‘teatro’ – di Giovanni Antonucci (che mi è stata molto utile, per contrasto rispetto a quello che penso e, dunque, per ‘illuminazione’) – si legge, a premessa di una puntuale rendicontazione:
La fortuna dell’opera dantesca e dello stesso personaggio di Dante in teatro è fenomeno tipicamente ottocentesco, generato dalla più ampia riscoperta dei valori morali e civili della sua poesia. Di tale riscoperta s’impadronì subito il teatro per tentarne una drammatizzazione che coinvolgesse non solo l’opera del poeta, ma anche e in misura ancora maggiore, la sua figura di cittadino profondamente impegnato nei problemi del suo tempo.
Dal Dante Alighieri di Vincenzo Pierracci (1820: peraltro in versi martelliani) e Dante e la patria di Virginio Prinzivalli (ormai all’inizio del ventennio fascista), il panorama della drammatizzazione dell’opera e della vita di Dante si staglia come una sorta di cimitero di carcasse, con qualche isolato oggetto di riguardo. Esso è composto naturalmente, in prevalenza dalla sceneggiatura di episodi rilevanti della vita dell’uomo Dante – l’amore per Beatrice, l’esilio, la morte a Ravenna sono i preferiti e più volte replicati – o delle storie più memorabili, che sono naturalmente soprattutto, ma non esclusivamente, episodi infernali.
Memorabilità significa notorietà e conoscenza già acquisita presso un largo pubblico per poterle rivedere sotto forma di dramma e la cui originale consistenza di intreccio invita gli autori, nei tempi del trionfo del “teatro in costume”, all’impresa: una via in cui trionfa, naturalmente, in quantità (ma anche nella qualità) la storia di Francesca da Rimini (da Silvio Pellico a Gabriele D’Annunzio, per dire solo dei paletti più evidenti e a tutti noti, che hanno superato anche l’ingiuria del tempo), seguita da quella di Pia de’ Tolomei – senza rilievo al fatto che la materia da sceneggiare sarebbe, di per sé, insussistente nella rapidissima scorciatura che presenta il poema – e poi del Conte Ugolino, ma anche di Pier delle Vigne, di Piccarda Donati, di Buondelmonte, di Manfredi, di Corso Donati, di Ezzelino, di Farinata, di Cunizza da Romano e così via.
Abbiamo, peraltro, un Dante a Verona del celebre Paolo Ferrari – quello di Goldoni e le sue sedici commedie nuove – del 1853, ma rappresentato solo nel 1875, che estraggo qui dal mazzo vista la sede di questa conversazione.
La voce di Antonucci – e naturalmente, prima, la bibliografia che questa compulsa e riassume – si compone di una imperterrita catena di stroncature: opera pessima o modesta, per lo più scarsamente rilevante sotto il profilo della “storicità” che dei valori dell’arte, e così via. Non è questo il nostro argomento e non ci intratteniamo oltre al proposito: è evidente che uno studio – se non mi sfugge, nel mare immenso della bibliografia dantesca – potrebbe essere utile, e perfino divertente, non nella vana ricerca di valori che resistano al tempo, ma per un tentativo di sintesi dell’impiego della figura di Dante sulle scene, sul suo significato, e soprattutto sulle convenzioni e sugli stereotipi che la massa, davvero rilevante, di questi lavori trasmettevano ai loro spettatori.
La sceneggiatura degli episodi prediletti del poema o della vita del suo autore esce dalla pratica diffusa dei teatri – dal repertorio, insomma – negli anni venti del Novecento, non certo per dimenticanza di Dante o perché non siano esistiti culti fascisti al riguardo nel ventennio, ma evidentemente per l’oggettivo esaurimento di una domanda e di una funzione. Se la vistosa fortuna della drammatizzazione di trame dantesche “in costume” esaurisce la sua onda con la risacca primo-novecentesca (risacca, naturalmente, dove le punte di rilievo meglio si collocano proprio per l’esaurimento della forza che oggi si usa definire nazional-popolare: si vedano, appunto, la Francesca da Rimini di D’Annunzio e il “comico” atto unico dello Gianni Schicchi di Forzano-Puccini), l’idea della teatralità di Dante si colloca e si definisce decisamente altrove nel secondo e ultimo Novecento.
Alessandro Ghisalberti
Dio è il Paradiso
Dio e Paradiso sono termini concettualmente sovrapponibili; siamo di fronte a un’endiadi, nel senso che Dio non è cristianamente pensabile senza il Paradiso, né il Paradiso per il cristiano è altra cosa a Dio.
L’Eden delle letterature, o l’Olimpo o i Campi Elisi della tradizione letteraria non rinchiudono il Paradiso inteso come lo stato, la condizione, il luogo della vita eterna condivisa, della perfetta comunione dei beati con Dio, possesso pieno, perfetto ed interminabile dell’eternità.
Nella stesura della terza Cantica, Dante apre con una nominazione filosofico-teologica di Dio: “La gloria di Colui che tutto muove” , e chiude, nel canto finale, riproponendo la stessa nominazione concettuale: “l’amor che move il sol e l’altre stelle”.
Muovere, dal latino movere, è usato nell’accezione più ampia, filosofico-teologica, ma anche poetico-astronomica. Filosofico è il richiamo al nome di Dio come “primo motore”, derivato dal libro Lambda della Metafisica di Aristotele, e il primo motore aristotelicamente è “atto puro”, che costituisce l’oggetto del desiderio di tutte le altre cose fuori di lui, contrassegnate tutte dall’avere l’atto congiunto alla potenza, dalla potenzialità commista all’attualità, e dunque dal non essere puro atto. Siccome la potenza aspira all’atto, desidera il bene perfetto, compiuto, ne deriva che tutto ciò che ha potenza entra in un moto desiderativo, che lo rivolge permanentemente all’atto puro. Ecco la ragione fondante del primo motore, primum movens, che muove tutto attirando tutto a sé. La tensione del desiderio di tutto il cosmo è originata dal primo, e si proietta in esso come destinazione ultima.
Siamo al cospetto di una movimentazione di vita e di energia che è rivelativa della gloria di Dio, la manifesta, facendo dell’universo un’unica, incessante teofania. Dal Dio dei filosofi siamo così assurti al Dio dei teologi, al Dio che crea per manifestare la propria infinita bontà, e per manifestarsi come Paradiso. Tutto ciò, in modo definitivo, avverrà nell’escatologia, nel compimento ultimo della promessa.
Dicevamo però che la nominazione dantesca di Dio come “Colui che muove”, all’inizio e alla fine del Paradiso, ha anche una forte valenza poetica, perché il verbo “muovere”, nella semiosi della lingua poetica, riguarda, oltre al metafisico compiersi della potenza nell’atto, il muoversi della mente, allorché l’uomo con la mente ricerca, compie un itinerario di studio e di applicazione, si muove, viaggia, va alla ricerca di qualcosa.
C’è ancora il muoversi del cuore, delle passioni, delle emozioni, dei sentimenti che muovono e, spesso, com-muovono, l’uomo nel suo vivere quotidiano. Ora Dio non è assente da tutti questi moti dell’uomo: il primo motore anche in relazione ad essi è l’origine, la causa, secondo le modalità di originare propria della causa prima, che non toglie spazio alle altre cause, alle cosiddette cause seconde, ma con esse collabora e con-causa.
Ada Ruschioni
Questo luminoso e armonioso endecasillabo, ottimamente scelto come titolo “E vidi lume in forma di riviera” della odierna Lectura Dantis, la prima del ciclo “L’ultima visione”, non è il verso di apertura del canto xxx e neppure si trova in principio, fra i primi sessanta versi dei complessivi centoquarantotto che lo compongono, bensì compare al verso sessantuno, al centro quasi del canto, esordio di quella parte fondamentale della figurazione dantesca dell’Empireo e, specificamente, alle soglie di quell’ultima visione, a cui Beatrice e Dante, appena usciti dal precedente nono Cielo e ormai ascesi al decimo ed ultimo, si stanno approssimando.
L’ Empireo – che, dal termine greco empyreos, significa “ardente per luminosità – è considerato anche dal nostro poeta, secondo le più antiche teorie astronomiche, il più esterno dei cieli e il solo immobile e, come nella concezione tomistica, da lui accolta, la sede dei Beati e della beatitudine, identificata con quella “Luce intellettual, piena d’amore” (v. 40) così eccessivamente intensa che, sulle prime, egli non può sostenere, ma che poi, riacquistata la “novella vista” (v. 58), gli consentirà di vedere subito proprio quel “ lume in forma di riviera” (v. 61), che risulta la prima immagine poeticamente raffigurata di questo Cielo.
A questa – a cui più oltre ritorneremo, per riprendere, dal citato “ E vidi” in poi, sino alla fine, l’analisi del canto – seguiranno, in un progressivo crescendo di luminosità, altre importanti immagini – “fiumana” , “faville”, “circular figura” , “rosa sempiterna” – che costituiscono le figure più singolari e originali della dantesca intuizione dell’Empireo, splendidamente definito “il ciel di pura luce” (v. 39) e – già, nel preludio dell’intera cantica, “il ciel che più della sua luce prende” (Par., i, 4), ossia, il cielo che più “prende”, riceve, possiede e mostra – della Luce divina.
Anche nei confronti di questa somma Luce il trentesimo del Paradiso può considerarsi il canto per eccellenza, il primo dei tre seguenti che concludono la Divina Commedia.
Risaliamo, quindi, per una lettura più completa ed esauriente, al suo inizio – i versi 1-15 – il proemio, cioè, che vede i due pellegrini, Beatrice e Dante, appena usciti “fuor del maggior corpo” (vv. 38-39), ossia il nono Cielo – detto “corpo”, perché materiale e il più grande della creazione – e già entrati nell’atmosfera paradisiaca che li accoglie.
Anche questa volta, come in non rari casi precedenti, non si potrà mai dimenticare, per esempio, la soave bellezza pittorica di altri orizzonti del Purgatorio, come:
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar della marina. (Purg., i, 115-117)
o come:
Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
dell’aer puro insino al primo giro (ib., i, 13-15)
e ancora come :
Già era il sole all’orizzonte giunto,
lo cui meridian cerchio soverchia
Jerusalèm col suo più alto punto (ib., ii, 1-3);
anche questa volta – ripeto – il poeta ricorre al motivo astronomico, tanto in genere caro e favorevole alla sua ispirazione, per indicare non solo l’ora temporale dell’approdo alla mistica visione, ma per raffigurarne pure la celeste e astrale metereologica realtà che, in questo caso, è l’avvicinarsi dell’alba.
Con un “forse” ed un “quasi “ – ai versi primo e terzo – e con riferimenti pur vagamente incerti e di pure un po’ dubbia interpretazione, Dante in questo esordio del xxx canto, schizza uno sfondo di cielo al crepuscolo, con una approssimativa allusione alla “ora sesta” (v. 2), quando circa un’ora manca al sorgere del sole, e le prime stelle cominciano ad offuscarsi e tutte poi, ad una ad una, si spengono, a mano a mano che ne “il mezzo del cielo” ( v. 4) s ‘inoltra l’aurora.
Giuseppe Ledda
Il xxxiii canto del Paradiso si apre con la preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine, perché sia concessa a Dante la grazia di giungere alla visione di Dio, vertice della sua esperienza dell’aldilà. In queste terzine convergono alcune delle linee tematiche fondamentali del poema. Tra queste mi pare eminente il motivo dell’impresa di viaggio e visione, e poi di memoria e scrittura, che è stata affidata a Dante. E la preghiera alla Vergine è pronunciata da san Bernardo, che innalzando questa «santa orazione» assolve il compito di “terza guida”.
La funzione di Bernardo trova in queste terzine il suo compimento e il personaggio acquista quindi il suo significato definitivo. Ma soprattutto la preghiera è rivolta alla Vergine, e in pochi versi si concentrano mirabilmente le formule vertiginose della teologia e della devozione mariana. Può essere allora utile ripercorrere rapidamente queste linee tematiche per prepararsi a cogliere non solo la bellezza e il significato di questi versi, ma anche il loro valore più ampio e profondo nel contesto complessivo del poema, di cui costituiscono uno dei punti conclusivi e cruciali.
Il Paradiso di Dante è un grande teatro celeste. Il vero Paradiso, sede di Dio, degli angeli e dei beati è posto nell’Empireo, al di là dei nove cieli corporei. Esso è un luogo-non luogo, un cielo puramente spirituale, il «ciel ch’è pura luce, // luce intellettüal, piena d’amore, / amor di vero ben, pien di letizia, / letizia che trascende ogne dolzore» (Par., XXX 39-42).
Ma Dante è un uomo, e non può conoscere se non attraverso i sensi corporei, dunque questa realtà puramente spirituale gli è inattingibile. O meglio, potrà coglierla alla fine, ma solo al termine di un processo graduale di conoscenza. Prima il Paradiso gli è presentato in modo indiretto: tutti i beati, che stanno nell’Empireo, scendono nei singoli cieli per incontrare Dante, per fargli segno in modo sensibile delle diverse realtà della beatitudine.
Quando giunge nel cielo Empireo, sede autentica del Paradiso e della divinità, Dante subisce l’ultimo scacco della vista, l’ultimo accecamento da parte della luce divina: «così mi circunfulse luce viva, / e lasciommi fasciato di tal velo / del suo fulgor, che nulla m’appariva» (XXX 49-51).
Ma, come avverte il verbo scritturale circunfulse, è qui attivo il modello paolino dell’accecamento sulla via di Damasco: la cecità causata dalla insostenibile luce divina è preparazione alla visione delle più alte realtà. Così Dante comprende di «sormontar di sopr’ a mia virtute», e aggiunge trionfalmente: «e di novella vista mi raccesi / tale, che nulla luce è tanto mera, / che li occhi miei non si fosser difesi» (58-60). Questa «novella vista», questa facoltà visiva rinnovata e potenziata attraverso la «battaglia» sostenuta nel corso dell’ascesa paradisiaca, non teme più cedimenti, ora che è stata saggiata e innalzata dalla «luce viva» dell’Empireo.
Nell’Empireo siamo al di fuori dello spazio, qui non c’è più la possibilità di modulare la narrativa avventurosa del viaggio, che ha agito ancora nell’ascesa attraverso i nove cieli corporei. L’esperienza del viaggiatore è ormai solo visione, ma la visione ha una sua speciale e nuova dinamica.
Oltre al movimento dello sguardo, espresso anche con metafore di moto, tra cui spicca quella del volare con gli occhi, esiste infatti ancora una crescita progressiva della visione, che permette la trasformazione di quanto Dante vede, non perché muti la realtà visibile, ma per il potenziarsi della vista del contemplante che riesce a cogliere sempre nuovi e più autentici aspetti della realtà.
Così anche qui ogni visione prepara alla successiva rendendo più forte e penetrante la capacità visiva di Dante. Questo è particolarmente evidente nella prima fase della visione dell’Empireo, e sarà poi decisivo nell’ultima, la visione di Dio, che si sviluppa progressivamente attraverso tre momenti. Ma anche la contemplazione dell’Empireo svolge a sua volta una funzione preparatoria alla visione di Dio: «Lume è là sù che visibile face / lo creatore a quella creatura / che solo in lui vedere ha la sua pace» (XXX 100-102).
Dopo aver osservato, sotto la guida di Beatrice, «la forma general di paradiso» (XXXI 52), Dante si volge verso di lei, ma al posto della beata vede invece «un sene / vestito con le genti glorïose» (59-60). Questo solenne vegliardo dall’atteggiamento teneramente paterno tranquillizza subito Dante, turbato per la scomparsa di Beatrice, e spiega di essere stato mandato proprio da lei: «“A terminar lo tuo disiro / mosse Beatrice me del loco mio”» (65-66). Egli rasserena Dante e lo invita a sollevare lo sguardo verso il seggio in cui ha preso posto Beatrice: poi ribadisce nuovamente il proprio compito, aiutare Dante a portare a compimento il viaggio oltremondano: «“Acciò che tu assommi / perfettamente […] il tuo cammino”» (94-96).
Ma perché ciò possa realizzarsi lo invita a dirigere lo sguardo attraverso ogni parte del paradiso-giardino: «“vola con li occhi per questo giardino”» (97). Volare con gli occhi è l’immagine che applica all’esperienza visiva la metafora del volo. Dopo che ripetutamente l’ascesa di Dante attraverso le sfere celesti è stata definita «l’alto volo», la metafora del volo sarà infatti usata in questi ultimi canti per indicare in termini di moto l’esperienza visiva.
Il viaggio, il movimento nello spazio è il motivo guida dell’intero poema, fin dal primo verso che pone tutta l’opera sotto l’immagine della vita umana come un viaggio di ritorno dall’esilio terreno verso la casa del padre. E alla dimensione del viaggio Dante non rinuncia neanche quando è ormai nell’Empireo, al di là dello spazio. Ma qui il viaggio è un volo degli occhi, immagine che indica l’innalzarsi dello sguardo nella luce del Paradiso e della divinità.
Marco Ariani
Un dramma del desiderio e della memoria introduce al mistero della visione: «l’ardor del desiderio» (Par., xxxiii, 48) eccede la capacità della memoria di testimoniare e trascrivere, tanto è sovrastata dall’ «oltraggio», dall’ irriferibile oltranza dell’esperienza mistica. Ciò che più colpisce di questi versi dell’estremo canto paradisiaco è l’ assoluta fermezza del controllo razionale sulla tentazione della resa, della rinuncia a dire quelle poche stille che la visione svanita ha lasciato nella «mente» del veggente. La vera oltranza è quella della scrittura, come coatta dalla «somma luce» divina a ripetere almeno «un poco» (vv. 69 e 74) di quella visione.
Ma il dramma della memoria ferita si trasforma, d’impeto, nella vittoriosa primazia della scrittura poetica: il pellegrino-artefice sanziona così la «vittoria» (v. 75) dell’Artifex supremo sull’impotenza dei «movimenti umani» (v. 37). Dante mette in scena il dramma con quell’assoluta economia di mezzi che gli permette di puntare la concentrazione della scrittura direttamente nella profondità insondabile del mistero: ma la messinscena non prevede una soluzione di comodo, ottenuta con mezzi consolatori o eufemismi decorativi, è il dramma stesso del desiderio incontenibile e della memoria impotente a delimitare il discorso ai loro soli, esclusivi termini, fatti solo di inanità e impotenza.
È il rigore della laconicità come espressione dell’inesprimibile: estremizzando il discorso si potrebbe dire che Dante, alla lettera, qui, paradossalmente, non dice nulla. Adottando infatti una vera e propria tattica del rinvio, il contenuto della visione viene continuamente dilazionato e ritardato, sul percorso negativo dei quasi, dei poco, dei ricordi e parole ridotti a mere stille e faville. Nella sezione dei versi 58-84, da «Qual è colui che sognando vede» a «tanto che la veduta vi consunsi» è stupefacente come Dante celebri il vuoto dell’inesprimibile insistendo sull’esperienza domestica dell’incapacità, della debolezza, dell’inettitudine. Ma per ventisei versi il poeta dice di non poter dire impiegando un’impressionante sequenza di immagini, tanto più icastiche quanto più ferma e razionale risulta la confessione di una disfatta, di una memoria attualmente, nel presente della scrittura, come dilavata, svuotata, abitata da frammenti, lacerti, barlumi di immagini.
Da una parte, dunque, l’ammissione di una sconfitta, dall’altra l’implacabile decisione di ridire, semplicemente, quella sconfitta. Sino alla fine, nonostante gli occhi del veggente ficcati e consunti (vv. 83-84), letteralmente, nell’abisso di luce tenebrosa, la scrittura dirà soltanto approssimazioni, ombre, allusioni, immagini oblique: la visione, realmente esperita, è svanita dalla mente come un sogno, la parola può riferirne solo qualche frammento e barlume («un semplice lume», v. 90).
L’immensa grandezza di questi versi è percepibile soltanto condividendo la lucida coscienza del poeta di celebrare il nulla attimale dell’estasi mistica: agli atti c’è però solo la razionalità del resoconto, di quell’esperienza, in sé irriferibile, si daranno soltanto alcuni, calcolati cenni. Che questi cenni, a noi lettori, sembrino l’apice stesso della poesia occidentale, è il portato di un «oltraggio», di una lesione immedicabile alla capacità del veggente di riferire il nero-accecante «punto» (v. 94) toccato nell’estasi (quando «i’ giunsi / l’aspetto mio col valore infinito», vv. 80-81).
Solo accettando che tutto quanto il poeta dice è mera umbra lucis è possibile accedere indirettamente al contenuto misterico della visione: qui Dante obbedisce al precetto paolino del non licet loqui enunciato nella seconda lettera ai Corinzi e a suo modo si appropria della tecnica apofatica e simbolica del sedicente allievo di San Paolo, Dionigi Areopagita, secondo il quale il contenuto del raptus Pauli è riferibile soltanto per immagini incongrue e approssimazioni inverse. L’apofasia, la mistica della negazione e del silenzio presiede in controluce a questo dramma della memoria e del desiderio: ciò che il poeta detta non sono tanto parole salvate dal silenzio, quanto parole fatte di luce tenebrosa, la superlucens caligo di Dionigi, la caligo ignorantiae mystica nemmeno sfiorata da parole incongrue alla realtà dell’essenza divina, e nondimeno coatte a riferire obliquamente il vuoto nulla estatico esperito nella visione. Il vuoto e il nulla, intesi secondo la mistica apofatica di matrice paolina (si ricordi, nella prima lettera a Timoteo [VI 16], l’immagine di quel Dominus … qui solus … lucem inhabitat inaccessibilem») e pseudodionisiana, sono i garanti stessi della grandezza di questa sublime quanto impotente poesia dantesca.
Lucia Battaglia Ricci
Lunga e ricca, e «tuttora difficile e confusa», la storia della tradizione iconografica della Commedia, che inizia ufficialmente nel 1337-1338, col celebre manoscritto Trivulziano 1080, il primo testimone manoscritto illustrato datato a noi giunto, seppur non necessariamente latore della più antica esperienza di illustrazione del poema, e giunge ai più recenti esperimenti dei pittori contemporanei, come, ad esempio, qui a Verona, Achille Incerti, ma ancora, in pieno Novecento, Dalì, Guttuso, Sassu, Zancanaro, per fare solo i primi nomi che vengono a mente, passando per le esperienze più diverse, quali, ad esempio, dopo gli antichi manoscritti miniati e i disegni del Dante historiato di Botticelli e di Zuccari, le numerosissime edizioni a stampa – dagli incunaboli alle esperienze sette-ottocentesche di Flaxman, Blake e Dorè a quella primo-novecentesca dei Fratelli Alinari, e ai vari progetti di editori moderni come Art’è, Nuages, ecc.– per arrivare alle esperienze costruite con immagini elettroniche e vulgate via etere nei pieni anni ottanta del xx secolo dal pioneristico A TV Dante: di Peter Greeneway e Tom Philips.
Esperienze diversissime, quelle qui cursoriamente rievocate, che attestano la vitalità dell’opera, la sua disponibilità a farsi oggetto delle più diverse forme di visualizzazione, comprese le numerose e varie esperienze estranee alla tradizione del libro, seppur con essa interagenti: l’Inferno della Cappella Strozzi, in Santa Maria Novella, dipinto da Nardo di Cione attorno al 1351, ad esempio, ma anche le scene dantesche dipinte da Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio, a Orvieto, tra il 1499 e il 1502, il Minosse e il Caronte che Michelangelo ha estratti di peso dalla Commedia e messi in scena nel Giudizio Universale della Cappella Sistina (1536-1541), come anche, per passare agli ultimi due secoli, la celebre Barca di Dante dipinta da Delacroix nel 1822 e ora al Louvre, gli affreschi tardo-ottocenteschi di Francesco Scaramuzza nella Sala di Dante della Biblioteca Palatina di Parma o i sassi dipinti da Silvio Benedetto nella cosiddetta Valle delle pietre dipinte a Campobello di Licata, Agrigento a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso.
La varietà delle forme e delle tipologie attestate e qui rievocate in modo peraltro estremamente sommario prova in modo lampante come nella plurisecolare tradizione del Dante illustrato agiscano e interagiscano forze di vario tipo, quali la personalità dell’artista, il linguaggio artistico dell’epoca in cui l’opera è stata realizzata, il tipo di interpretazione e, più in generale, l’approccio critico alla Commedia di volta in volta implicato. Ma anche, inevitabilmente, l’uso che nelle varie epoche storiche si è fatto del libro e dell’opera letteraria: “uso” che ha rilevanza nella costruzione di quel singolare testimone che è il singolo manoscritto, come anche nella composizione del paratesto editoriale delle copie a stampa.
Per queste ragioni storia della critica dantesca, storia dell’arte figurativa e storia del libro si intrecciano indissolubilmente in ogni capitolo della storia del Dante illustrato, anche nel capitolo che qui interessa: quello rappresentato dallo splendido manoscritto della Commedia confezionato per Federico da Montefeltro e oggi conservato nella Biblioteca Vaticana, forse il più bel manoscritto della Commedia, come scrive Luigi Michelini Tocci nella voce Giraldi, Guglielmo da lui curata per l’Enciclopedia Dantesca, certo tra i più lussuosi e superbamente illustrati, al quale spetta chiudere, dopo i circa centocinquanta anni di ininterrotta produzione che lo separano dal Trivulziano, la storia del Dante miniato, nel momento stesso in cui iniziava il successo editoriale del poema.
È infatti proprio nei medesimi anni in cui prende vita questo manoscritto, la cui complessa e ricchissima illustrazione viene progettata e in parte realizzata da un gruppo di miniatori ferraresi gravitanti attorno a Guglielmo Giraldi tra il 1477-78ca e il settembre 1482, che cominciano le edizioni a stampa della Commedia: nel 1472 il poema viene stampato a Foligno, a Mantova e a Iesi; nel 1474 a Milano; nel 1477 a Napoli; nel 1477 a Venezia, col commento di Iacopo della Lana; nel 1481 a Firenze, dove il 30 agosto esce col commento di Cristoforo Landino e il ricco corredo iconografico costituito dalle calcografie di Baccio Baldini su disegno di Sandro Botticelli.
Enzo Cecchini
Confesso di provare un forte impaccio nel presentarmi davanti ad un pubblico di cultori e studiosi di Dante senza potermi fregiare del titolo di dantista. Ammetto volentieri di aver recato, è vero, in qualche occasione alcuni utili contributi alla ricerca intorno a singole questioni concernenti opere l a t i n e dell’Alighieri, contributi che mi valsero, a suo tempo, l’invito del compianto Francesco Mazzoni a prender parte al terzo Seminario dantesco internazionale (Firenze, 9-11 giugno 2000); ma un’attività di indagine nel campo degli studi danteschi è stata da me sempre e soltanto svolta in veste di latinista o meglio di studioso di latinità medioevale particolarmente interessato a problemi di filologia testuale.
Spero che questa necessaria premessa valga a giustificare la mia intenzione di sorvolare sul tema dei rapporti tra Dante e il Signore di Verona: un tema, questo, sul quale la mia competenza è assai vaga.
Desidero anche giustificare preliminarmente la mancanza nella mia edizione dell’epistola di qualsiasi riferimento al volume di Giorgio Padoan Il lungo cammino del «poema sacro», Firenze, Olschki 1993, che contiene l’ampio saggio intitolato Sulla datazione del «Purgatorio» e del «Paradiso» (e la dedica a Cangrande). La mia edizione invero era già stata consegnata per la stampa un anno prima di quella data, esattamente nel febbraio1992, ma un imprevisto passaggio da una ad altra casa editrice ne rinviò l’uscita di più di tre anni, con qualche spiacevole conseguenza. La posizione del Padoan circa l’autenticità dell’intera epistola era del resto già nota, ma la complessa messa a punto realizzata in (214) quelle pagine, anche e soprattutto per la proposta di datazione del testo, avrebbe ampiamente meritato una citazione.
Eugenio Ragni
Sono doppiamente grato al Comitato organizzatore del Centro Scaligero che mi ha fatto l’onore di invitarmi a parlare di Dante in questa suggestiva e stimolante cornice della Capitolare. Doppiamente grato, dico, perché anzitutto questo invito mi gratifica largamente nella mia veste di appassionato lettore del poeta (e vorrei sottolineare il sostantivo, lettore, che credo definisca, meglio d’ogni altro possibile, il tipo di approccio che tutti noi – studiosi e no – dovremmo instaurare con la Commedia); ma poi perché una lectura Dantis scandita per temi e non per canti è un mio antico proposito di lavoro, balenato e via via maturato nel corso della mia entusiasmante, lontana ma indimenticata esperienza vissuta per alcuni anni nel team redazionale dell’Enciclopedia Dantesca, la meritoria summa del pensiero, della lingua, dell’opera di Dante, ideata, voluta e diretta da Umberto Bosco e Giorgio Petrocchi.
Per una serie di ragioni che è poco utile rievocare qui, il progetto non si è attuato, ma dentro di me la sua sinopia è stata ed è ancora oggi un pungolo che mi sollecita ogni volta che mi accade di affrontare la Commedia; e che anche mi ferisce, perché mi convinco sempre più della piena legittimità ed efficacia di questo tipo di lettura, e mi rimprovero ogni volta per aver ceduto a difficoltà e resistenze probabilmente meno inattaccabili di quanto apparissero, e comunque di aver lasciato trascorrere il momento magico dell’entusiasmo e della felice arroganza giovanile per imbarcarmi in un compito che oggi la più pacata ma anche più pavida riflessività della stagione matura mi fa giudicare eccessivamente impervio. Inutile dire perciò che la proposta venutami da Verona, e la rilettura del Paradiso nell’ottica specifica di un tema, hanno riacceso e con(224)fermato in me la convinzione che la scelta di un percorso tematico costituisce una delle (o fors’anche la) migliore prospettiva per evidenziare strutture che nella parcellizzazione per singoli canti possono fatalmente sfuggire.
Se è vero che da tempo una certa critica più sensibile alla fenomenologia stilistica e strutturale del poema dantesco ha evidenziato, spesso in modo folgorante, i ritmi narrativi e figurali che formano trama e ordito dei singoli canti; è anche accertato che raramente essa ha poi spinto lo sguardo oltre il segmento di un singolo canto, a cogliere echi, rispondenze, richiami più o meno espliciti, comunque afferibili, però, a quella che va sempre più chiaramente delineandosi come una tessitura ordinatissima di forme e concetti sapientemente preordinata dall’autore.
Ed è singolare che anche in tempi di fiorente strutturalismo un’opera che si presta a livello ottimale a un’indagine improntata a questa metodologia sia stata solo episodicamente sondata. Come nessun altro capolavoro letterario, la Commedia offre un impianto graniticamente unitario e composito allo stesso tempo; ogni parte del poema – storie di singoli personaggi, segmenti narrativi, simmetrie, simbologie numerali, immagini replicate, episodi calcolatamente speculari, specifici richiami lessicali o figurali – ogni singolo segmento del poema insomma riconduce sempre al tutto, all’architettura globale della costruzione, proponendosi come precisi richiami che l’autore ha predisposto per il lettore che intenda penetrare più intimamente e intensamente la struttura stratificata del poema. Ogni segmento trova dunque la sua ragione come tessera programmata a formare l’intero mosaico.
Proprio questa struttura complessa e unitaria insieme, proprio la fondamentale necessità che cementa un segmento all’altro fa sì che scegliendo e percorrendo un qualsiasi itinerario non si perda mai di vista il tutto, anzi non si possa prescindere ogni volta dal rapportarsi all’intero poema, conquistando spesso un punto d’osservazione inedito o quanto(225)meno approfondito su architetture, singole problematiche, temi, pregnanze lessicali o figurali.
Non intendo con questo, è bene chiarirlo, negare validità prioritaria alla suddivisione in canti, non foss’altro perché essa è scaturita dall’invenzione dell’autore: il quale l’ha felicemente asservita, fra l’altro, a un’intenzione numerico-simbologica altamente funzionale e suggestiva; e tantomeno intendo negare validità alla prassi ormai canonizzata, anche se un po’ invecchiata, di “leggere” la Commedia un canto alla volta, affidando per di più la lettura di ciascun canto a studiosi diversi per formazione e metodologia.
Quanto mi preme evidenziare è l’inevitabile riduzione che il poema subisce in una scansione di lettura rigidamente asservita a una struttura formale, certamente necessaria, è indubbio, ma non dogmaticamente vincolante, e sicuramente eccepibile almeno laddove l’episodio, il personaggio, il racconto travalichino lo steccato di un singolo canto: circostanza che è assai meno rara di quanto non appaia: e basterà credo citare i segmenti narrativi dedicati a Sordello, a Stazio, a Cacciaguida; o le digressioni dottrinali che sorreggono la struttura intima del poema e che spesso s’inarcano su due canti contigui. Un rigido chiudersi nel segmento comporta automaticamente la rinuncia a una lettura più articolata, diffusa, totalizzata, e perciò stesso più suggestiva, impedendo dunque un più incisivo scavo del testo.
Elemento strutturale di convenzione squisitamente retorica, la suddivisione in canti è sublimata nella Commedia in struttura poetica e in efficace cadenza di ritmo narrativo. Ma parallelamente a questa corre un’altra cadenza, altrettanto funzionale, assai meno meccanica, certamente legittima e, credo, altrettanto se non più funzionale, che va a inscriversi disinvoltamente nella prima, senza per questo lasciarsene condizionare o almeno prevaricare: intendo la cadenza narrativa che configura il racconto del viaggio oltremondano in una serie di episodi concatenati o in una teoria di tematiche.
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