Il Centro Scaligero degli Studi Danteschi e della Cultura Internazionale vanta un meravigliosa quanto pregiata biblioteca di opere storiche di grande prestigio. Volumi di grande valore storico e letterario che gestisce con la massima cura e il massimo rispetto.
A cura di Ennio Sandal
Gli otto contributi proposti in questo volume riportano in gran parte le lezioni tenute durante il corso che il Centro scaligero degli studi danteschi di Verona ha promosso nell’anno sociale 2004-2005: sede prestigiosa degli incontri la Biblioteca Capitolare della città veneta.
Si tratta ormai della nona edizione di queste Lecturae Dantis scaligerae, essendo i corsi promossi dal Centro veronese iniziati nel 1996. Gli incontri hanno sempre seguito il filo conduttore di un tema: l’anno immediatamente precedente la ricorrenza del centenario petrarchesco aveva suggerito l’opportunità di trattare, nelle letture proposte, il tema “Dante e Petrarca”. Nella presente circostanza si è affrontato il tema “Dante e Boccaccio” e si è parlato del più grande e affezionato estimatore di Dante nel suo secolo, dedicando appositamente il ciclo annuale delle conferenze alla memoria di Vittore Branca, dopo che la repubblica delle lettere era stata privata della presenza del grande maestro per la sua morte occorsa il 28 maggio 2004.
Il volume é acquistabile dal sito della Editrice Antenore di Padova.
Armando Balduino
Pare anche a me felicissima, da parte del “Centro scaligero degli studi danteschi”, la decisione di incentrare il suo annuale ciclo di lezioni sul più illustre e devoto cultore che Dante ebbe nel Trecento e di dedicarlo esplicitamente alla memoria di Vittore Branca 1. Di ciò, dunque, mi congratulo anzitutto con Albertina Cortese, che qui saluto con l’amicizia e l’affetto nati sui banchi dell’Università di Padova, com’è anche accaduto con altri cari compagni veronesi (Paola Azzolini, Gilberto Lonardi) che, in anni lontani e anch’essi con la guida di Branca, si sono come noi laureati. Naturalmente, accettando un invito che non potevo rifiutare, sapevo fin dall’inizio, ed oggi confermo, che l’occasione comportava un altissimo, in vario modo condizionante tasso di commozione, dovuto ai legami non solo culturali ma anche affettivi che ho avuto, e serbo, con una persona mancata da poco, alla quale la sorte mi ha concesso il privilegio d’essere vicino per più decenni e che, non certo solo a fini professionali, ha esercitato sulla mia vita incidenze decisive. Ovvio anche che si tratti d’emozioni che molto hanno a che fare con i tanti ricordi scritti – direbbe Dante – in un «libro della memoria» che, nel caso, ha per me numerosissime pagine. Almeno in esordio, permettetemi quindi di estrarne qualcuno, subito peraltro avvertendo che, pur senza ritenere che siano essi i più significativi, circoscrivo la scelta fra quelli più agevoli da riferire in pubblico. Accolto in Istituto con la modesta qualifica di “assistente straordinario”, nel primo colloquio dopo la laurea trovai il coraggio di dirgli: «Professore, mi creda, sono arcistufo d’occuparmi di poetini e poetastri dell’Ottocento italiano», quelli cioè che erano stati al centro della mia tesi. Immediata la sua replica: «Capisco, capisco. Ma che problema c’è? Cambi zona, si metta a studiare Boccaccio». Dopo un triennio passato a collazionare prima, e a classificare poi, una cinquantina di testimoni (fra manoscritti e incunaboli), nacque così la mia edizione del Ninfale fiesolano e furono poste le prime basi della mia formazione filologica. All’affiorare in me di una vocazione prima latente, molto del resto aveva anche contribuito, nello stesso torno di tempo, il memorabile, emozionantissimo incontro diretto che alla Marciana, accanto a lui e a Ricci, potei avere nientemeno che con l’autografo del Decameron, grazie a Branca temporaneamente trasferito a Venezia. Fu un evento, aggiungo, che a noi allievi (quel giorno, se non erro, c’erano con me anche Quaglio e Pastore Stocchi) dava la misura di quali già fossero non solo l’autorevolezza, ma anche le “astuzie” professionali del nostro Maestro. Quanto avventurosamente (a prezzo cioè di quali complicità e sotterfugi) una simile impresa gli riuscisse, in piena guerra fredda e con una Berlino ancora semidistrutta, qualcosa avremmo peraltro saputo da sue confidenze solo parecchio tempo dopo 2. Divenuto a mia volta professore, non ebbi mai l’ardire, finché Branca insegnava accanto a me, di dedicare un corso monografico al Boccaccio. Mi decisi a farlo dopo che egli ebbe lasciato l’insegnamento. Nell’anno accademico 1983-1984 mi avventurai così in un corso sul Decameron. Fu un’esperienza singolare e quasi traumatizzante: nel commento a qualsiasi pagina del capolavoro mi era impossibile non risentire la voce del Maestro e non rammentare punto per punto le sue analisi. Come, nei confronti del padre, succede ai figli che da lui avvertono il bisogno di affrancarsi, mi accorgevo che spessissimo cercavo punti di vista del tutto diversi e perfino, magari, mi affannavo a sostenere tesi opposte, salvo poi dover ammettere che le ragioni più solide stavano pur sempre dalla parte di Branca. Chi di Branca è stato allievo sa bene cosa intendo quando confesso che risentivo la sua voce. Nelle sue lezioni, s’intende, sostanza e dottrina c’erano sempre; ma tutt’altro che ininfluente era, se così posso dire, la scena. Branca sapeva anche essere un fine dicitore; affascinava e riusciva coinvolgente anche perché sembrava che quei suoi testi li scoprisse con noi per la prima volta e li assaporava, appunto, modulandoli con grande varietà di toni, con gli effetti di pause sapienti, con l’arte insomma di un attore provetto.
Lucia Battaglia Ricci
Dante, Petrarca, Boccaccio: le “Tre Corone”, una accanto all’altra a esplicitare, fin dal titolo, il nodo che in Boccaccio si fa realtà biografica e esperienza intellettuale, grazie al particolarissimo rapporto che l’autore del Decameron ha stretto con entrambi i padri fondatori, facendosi anch’egli, a suo modo, fondatore e modello per gli intellettuali e letterati di tutt’Europa. Che il Centro Scaligero degli Studi Danteschi organizzi un ciclo di letture su ‘Dante e Boccaccio’ dedicandolo alla memoria di Vittore Branca pare scelta felicissima di chi, con tanta passione, questi incontri progetta e gestisce. Della totale revisione degli studi su Boccaccio, anzi del rilancio dell’interesse critico per Boccaccio, Branca è certo stato promotore infaticabile e appassionato. Si devono a lui saggi e letture che hanno segnato tappe importanti nella riflessione critica, nonché l’edizione completa di tutte le opere del Certaldese: un monumento che ha permesso una complessiva rivisitazione dell’intera sua produzione, comprese opere come le Genealogie e il De montibus, finora sostanzialmente illeggibili. Su queste è andato operosamente sviluppandosi il lavoro di ricerca e lo scavo intertestuale delle ultime generazioni di lettori, che hanno fatto emergere la ricchezza e l’articolazione della biblioteca di Boccaccio, con scoperte un tempo impensabili, quali la sorprendente quantità e la non convenzionale qualità dei testi filosofici a lui noti e le sue raffinate, precoci, delibazioni di testi classici, consentendo di ricostruire la rete di connessioni intertestuali messe in atto nella sua scrittura creativa e di cogliere la rilevanza culturale del progetto sotteso all’intera sua produzione. Ne è discesa una lettura del tutto nuova di quel capolavoro che è il Decameron e, soprattutto, una diversa consapevolezza della grandezza intellettuale del suo autore, che impone di ripensare la tradizionale gerarchia delle “Tre Corone”: una gerarchia fissata in origine tenendo conto solo della loro produzione lirica in volgare,1 poi utilizzata in modo estensivo e automaticamente passato in giudicato presso lettori professionisti e non, certo favoriti in questo dallo stesso Boccaccio, e dalle sue infinite, generose e appassionate, dichiarazioni di subalternità nei confronti degli altri due grandi e soprattutto nei confronti del quasi coetaneo Petrarca, alle quali si deve che egli finisca per risultare – almeno in certe decisamente riduttive, schematiche e soggettive sistemazioni storiografiche uscite in tempi recentissimi – schiacciato, se non del tutto cancellato, dall’assoluta eccellenza del padre Dante, il titanico creatore della letteratura e della lingua nazionale, da un lato e, dall’altro, dalla tradizionale gerarchia culturale che, collocando la prosa un gradino “sotto” la poesia, inevitabilmente finisce per collocare al di sopra di qualunque pur eccelso sperimentatore e fondatore di modelli narrativi colui che è stato per secoli massimo modello di riferimento per la poesia: il raffinato cantore dell’amore nonché fondatore dell’umanesimo e poeta laureato Francesco Petrarca.
Il quale Petrarca, va detto, ha avuto una visione più limpida, sia del valore oggettivo di Boccaccio sia del rapporto che intercorreva tra loro. Lo mostra un pur rapido spoglio delle lettere che i due si scambiarono per circa vent’anni, parlando di se stessi e del loro modo di pensare la letteratura e la poesia, ma anche della loro amicizia, e della loro vita. Se infatti Boccaccio si rivolge costantemente all’illustre e quasi coetaneo interlocutore come a un maestro, appellandolo appunto “mio padre e maestro”, “mio eccellente maestro”, “venerabile mio maestro”, “venerabile mio precettore”, “nostro carissimo concittadino e venerabile uomo e mio maestro e padre”, Petrarca si rivolge a lui come a un “amico”, a un “fratello”: anzi, come si legge nella Senile vi 2, a un “dolcissimo fratello” che nella Senile xvii 2 non esiterà a riconoscere “molto disgraziato nei beni di fortuna”, ma “pieno di filosofica e poetica dottrina”, “arricchito da Dio di molti e preclarissimi doni e posto al di sopra di quasi tutti i suoi contemporanei”, “quasi un Lattanzio o un Plauto dell’età loro”, con il quale egli, dotato di beni di fortuna che gli permettono di essere, se non ricco, certo “privo di preoccupazioni”, sarebbe ben lieto di dividere i suoi beni, anche se questi si riducessero a un solo pane, o a un solo letticciolo: che, immagina Petrarca, “sarebbe certo largo abbastanza per accogliere ambedue a dolce sonno e a fedele conforto delle cure diurne”.2 E se anche alcuni passaggi di queste lettere lasciano immaginare che tra i due il più prolifico, il più irruente, il più attento a mantenere attivi i contatti dovette essere Boccaccio, che, dopo aver provocato – nel 1350 - il primo incontro uscendo con l’eletta compagnia dei più raffinati esponenti della cultura protoumanistica fiorentina dalle mura della città per salutare il poeta fattosi pellegrino romeo, non esitò a mettersi in viaggio per andare a visitare l’illustre amico nelle città dove egli si trovò a vivere (nel 1351 a Padova, nel 1359 a Milano, nel 1363 a Venezia, nel 1368 ancora a Padova), fermandosi nella sua casa ad attenderlo se assente, a discutere con lui nel piccolo giardino privato annesso alle sue dimore, o a copiare per sé, attingendo direttamente dalle pagine vergate dall’amico, il Liber fragmentorum, è dalla parte di Petrarca che più chiaramente emerge il carattere amicale, “alla pari”, della relazione che ha legato i due scrittori dal 1350 fino alla morte. Così è Petrarca che, in una lettera del 1359, affida alle carte il ricordo del primo loro incontro e dei sentimenti che quell’esperienza ha suscitato in lui, nonché l’esplicito apprezzamento per i prodotti della sua penna:
Per tacere di altri esempi, nei quali mi dichiaro vinto dal tuo ossequio e dalla tua amicizia, non potrò mai dimenticarmi di quando viaggiando […] attraverso l’Italia nel cuore dell’inverno, non con i soli affetti che sono come i passi dell’anima, ma con la persona celermente mi venisti incontro per il desiderio grande di conoscere un uomo non mai visto prima d’allora, facendoti precedere da versi veramente pregevoli. E così […] mi mostrasti prima l’affetto del tuo animo che non quello del tuo viso. Era vicina la sera e la luce già incerta quando entrando dopo lunga assenza tra le mura della […] tu rinnovasti il rapporto di amicizia […] e mi guidasti […] nei sacri penetrali della tua amicizia.
Ed è ancora Petrarca che, fissando in una nota vergata sul margine di un suo manoscritto il ricordo di un evento ricco di sottili, ma intense implicazioni simboliche e affettive per chi, come lui, ha fatto degli allori l’emblema della sua storia d’amore e della sua poesia, lascia intravedere momenti di vita comune vissuti all’insegna della solidarietà anche intellettuale. Nella nota datata 26 marzo 1359 sul margine del manoscritto ora Vaticano latino 2193, che tramanda il De agricoltura di Palladio, egli racconta infatti di aver provveduto a piantare cinque allori “nel giardino milanese di Santa Valeria” e di ben sperare per questi “sacri arboscelli” anche perché era presente «insignis uir dompnus Joannes Boccaccj de Certaldo, ipsis amicissimus et mihi». L'immagine dei due amici intenti a piantare nel giardino del poeta laureato Petrarca, seguendo e commentando le istruzioni dei classici e dei trattati medievali sulle proprietà delle piante, le pianticelle di quel mitico alloro le cui fronde non cinsero mai le tempie del Certaldese, fissa emblematicamente il senso di una amicizia così profonda da far dei due dioscuri della nostra letteratura, «seiuncti licet corporibus, unum animo», come recita la Senile i 5: (“Se anche divisi nei corpi, uno nell’animo”).
Attilio Bettinzoli
i. Vorrei cominciare precisando meglio il perimetro del mio intervento, che certamente non ambisce ad esaurire l’intera gamma degli interessi e delle cure dantesche del Boccaccio. Vedo d’altronde dal programma di questo ciclo di lezioni che già una conferenza precedente aveva a tema il culto per Dante, che si accampa fin dall’inizio del suo multiforme itinerario come una delle costanti più sicure nell’avventura intellettuale del Certaldese, e altre ne sono annunciate che illustreranno meglio di quanto non potrei fare io singoli momenti ed episodi di quella lunga fedeltà al magistero dell’Alighieri. Il titolo provvisorio – ossia «Dante in Boccaccio» - costituiva in realtà solo un’indicazione molto sommaria di assenso al tema generale di questo corso, e andrà quindi circoscritto, per assumere proporzioni più abbordabili e commisurate alle mie forze, entro confini come quelli che potrebbero essere suggeriti da un’intestazione del tipo «Dante nel Decameron», o magari – per essere ancora più cauti - «Occasioni dantesche nel Decameron»: che è appunto ciò attorno a cui verranno a svolgersi le mie riflessioni. Devo anche dire che, nel riprendere per la circostanza questa materia, già argomento della mia tesi di laurea,1 e nel riconsiderarla alla luce degli studi e di quel poco d’esperienza che posso aver maturato nel frattempo, mi trovo nella condizione naturale di rivolgere un pensiero del tutto necessario alla memoria di Vittore Branca, cui anche questo corso – a quanto vedo – è con assoluta giustezza di propositi dedicato. Fu proprio Branca in effetti ad affidarmi quella tesi, ad avviarmi sulla strada di questi non facili – pur se appassionanti – studi, e, senza calcare adesso il pedale dell’autobiografismo e dei (molti) ricordi, non posso non rendere omaggio al mio maestro, testimoniando quanto sia vivo, in coloro che – come me – lo hanno conosciuto e frequentato per molti anni, e insieme quanto già ci manchi, lo stimolo della sua generosità, del suo entusiasmo, del suo ineguagliabile esempio.
ii. E dunque, Dante nel Decameron: il che vuol dire poi interrogarsi sul ruolo che il modello poetico e narrativo della Commedia ha giocato nella definizione delle strutture e delle forme, delle scelte rappresentative e figurative, stilistiche e linguistiche di un’opera così diversa peraltro, e peculiare, e inconfondibile nella sua specifica individualità, qual è il capolavoro novellistico del Certaldese. Il tema è un classico degli studi boccacciani, e appartiene tuttavia a quel ristretto repertorio di questioni su cui non si smette di interrogarsi, perché la complessità dei nodi che vi s’intrecciano ne rende pressoché inesauribile lo svolgimento. Ad essere chiamata in causa è la fisionomia quintessenziale e profonda delle opere in oggetto, e ciò spiega perché le analisi specifiche – che pure esistono, e hanno, ciascuna nel proprio ambito, il loro interesse – risultino tuttavia alla fine parziali e non conclusive. Un elemento di difficoltà deriva poi naturalmente da quelli che potremmo chiamare i margini di non sovrapponibilità delle due opere: più ancora dell’opposizione prosa-poesia, l’appartenenza a generi letterari diversi comporta strategie e finalità almeno in parte incommensurabili. E tuttavia, se anche il Boccaccio sperimentò più volte sia in verso che in prosa (e segnatamente nell’Amorosa Visione e nel Corbaccio) strategie e modelli narrativi almeno apparentemente più affini all’esempio dantesco, il Decameron è la sola – fra le opere d’invenzione del Certaldese – per cui il confronto con la Commedia s’imponga nelle forme di un dialogo condotto – almeno idealmente – su un piede di sostanziale parità.
È nozione da tempo acquisita agli annali della critica – e proprio Branca, fra gli altri, ha avuto il merito di insistere specialmente su questo – che il Decameron non può essere letto come una raccolta più o meno occasionale di novelle,2 ed è invece essenziale cogliere come in esso prenda forma il disegno a largo raggio di un libro in cui viene a riflettersi la totalità della vita e del mondo, nella molteplicità e nella contraddittorietà delle sue manifestazioni. È impensabile che un progetto così impegnativo e ambizioso, che proiettava indirettamente un genere come quello novellistico ben al di là dei limiti – ad esso caratteristici – della letteratura d’intrattenimento, non risenta nel Boccaccio dell’esempio della Commedia, che quell’ambizione medesima esprimeva, a un livello anzi ancora più elevato e totalizzante. Donde l’importanza, anche nel Decameron, delle componenti strutturali del libro, di tutta quella parte che si è soliti indicare come la “cornice”, e notoriamente comprende il Proemio, l’Introduzione generale e le introduzioni alle singole giornate e novelle: non dunque un ingombrante e inutile festone tardogotico, sostanzialmente estraneo all’ispirazione nativa del Boccaccio, ma anzi una chiave di volta capitale del progetto e dell’architettura decameroniana.
Giuseppe Chiecchi
Pur nella sua assoluta rilevanza nell’ambito della filologia e della linguistica applicate alla letteratura fiorentina e toscana del XIV secolo, Vincenzio Borghini è personaggio poco conosciuto ai più. Nasce a Firenze nel 1515 e muore, sempre a Firenze, nel 1580. Si rilevano qui tre dati salienti della sua vita: vestì l’abito benedettino nel 1531; nel 1552 assunse la carica di Spedalingo degli Innocenti, per cui sarà chiamato ‘Spedalingo’, ‘Priore’, ‘Priore degli Innocenti’; nel 1563 fu nominato luogotenente per l’Accademia del disegno. Le menzionate occupazioni, e le molte altre di minore gravezza, costituiscono nel loro complesso il profilo di un intellettuale engagé, a tal punto da doversene lamentare in una sua lettera a Ludovico Martelli del 15 dicembre 1571:
[…] io sono tanto affogato da pensieri e da fastidi, che a me par miracolo ch’io non giri, che non ho mai un’ora di bene e fin quando io mangio mi conviene o dettare o scrivere per negozi di casa o d’altri. E se nulla mi mancava alla cura di 2000 anime che ho alle spalle, mi è rovinata la casa propria per la morte d’un mio unico fratello, che m è stato di tanto scontento quanto Vostra Signoria può pensare […].
Il lutto, a cui si accenna, è la morte del fratello Lorenzo, unico, nel senso di unico rimasto, poiché l’altro fratello, Agnolo, era già deceduto nel 1557, all’età di 51 anni. Agnolo ci permette di entrare subito in argomento dantesco, infatti egli aveva a più riprese postillato una Divina Commedia «del Cento»; alla sua morte, il manoscritto (ora: BNCF, II IV 245) passò al fratello Vincenzio, costituendo in questo ultimo una sorta di familiare percorso filologico.
Infatti la scrittura di Agnolo - a giudicare dagli inchiostri - si era sedimentata sulle carte del codice a poco a poco, in un procedimento accumulativo di analisi dei commenti (soprattutto quello di Landino), di note linguistiche e di varianti più precisamente filologiche, che, raccolte da Vincenzio, furono a loro volta da questo trasferite, in tempi diversi, ad altri esemplari di collazione, con l’aggiunta di ulteriori collazioni. Un capitolo importante, da questo punto di vista strettamente filologico, è l’esemplare della vituperata edizione aldina del 1515 della Commedia (ora BMLF, Antinori 260), sul quale Vincenzio Borghini fa convergere la collazione di dieci testimoni, tra cui il «Testo scritto a mano, d’Agnolo Borghini, del Cento».
Per cui si può giudicare l’interesse dantesco di Vincenzio come una prosecuzione accumulativa di un esercizio già sperimentato da Agnolo e transitato da questo nelle mani del fratello superstite, diventando, oltre che dato emotivo, di partenza, modello di procedimento nella formazione della recensio, nella analisi della tradizione indiretta, nella inclusione, ai fini del restauro testuale, dei particolari linguistici e storico linguistici. Questa doppia pulsione metodologica ed emotiva, filologica e familiare, può ulteriormente adornarsi di un altro elemento significativo e contestuale: un esemplare della princeps aldina (Venezia, 1502), conservato nella Biblioteca Apostolica Romana (Barberiniano, CCC 1 18), riporta varianti marginali di Bartolomeo (o Baccio) Barbadori, possessore, tra l’altro, di un «buon testo» della Cronica di Giovanni Villani.
Il notevole profilo filologico di Barbadori deve ancora essere scritto: scopritore di classici (Elettra di Euripide, assieme a Girolamo Mei) discepolo di Pier Vettori, dalla filologia classica era transitato alla letteratura volgare e aveva stretto legami di amicizia e di collaborazione con il Priore degli Innocenti. Con questo si ribadiscono, in Borghini e nella cerchia delle sue conoscenze, i segni di un rinnovato e consistente interesse prevalentemente filologico per il testo dantesco.
Pur nella sua assoluta rilevanza nell’ambito della filologia e della linguistica applicate alla letteratura fiorentina e toscana del XIV secolo, Vincenzio Borghini è personaggio poco conosciuto ai più. Nasce a Firenze nel 1515 e muore, sempre a Firenze, nel 1580. Si rilevano qui tre dati salienti della sua vita: vestì l’abito benedettino nel 1531; nel 1552 assunse la carica di Spedalingo degli Innocenti, per cui sarà chiamato ‘Spedalingo’, ‘Priore’, ‘Priore degli Innocenti’; nel 1563 fu nominato luogotenente per l’Accademia del disegno. Le menzionate occupazioni, e le molte altre di minore gravezza, costituiscono nel loro complesso il profilo di un intellettuale engagé, a tal punto da doversene lamentare in una sua lettera a Ludovico Martelli del 15 dicembre 1571:
[…] io sono tanto affogato da pensieri e da fastidi, che a me par miracolo ch’io non giri, che non ho mai un’ora di bene e fin quando io mangio mi conviene o dettare o scrivere per negozi di casa o d’altri. E se nulla mi mancava alla cura di 2000 anime che ho alle spalle, mi è rovinata la casa propria per la morte d’un mio unico fratello, che m è stato di tanto scontento quanto Vostra Signoria può pensare […].
Il lutto, a cui si accenna, è la morte del fratello Lorenzo, unico, nel senso di unico rimasto, poiché l’altro fratello, Agnolo, era già deceduto nel 1557, all’età di 51 anni. Agnolo ci permette di entrare subito in argomento dantesco, infatti egli aveva a più riprese postillato una Divina Commedia «del Cento»; alla sua morte, il manoscritto (ora: BNCF, II IV 245) passò al fratello Vincenzio, costituendo in questo ultimo una sorta di familiare percorso filologico. Infatti la scrittura di Agnolo - a giudicare dagli inchiostri - si era sedimentata sulle carte del codice a poco a poco, in un procedimento accumulativo di analisi dei commenti (soprattutto quello di Landino), di note linguistiche e di varianti più precisamente filologiche, che, raccolte da Vincenzio, furono a loro volta da questo trasferite, in tempi diversi, ad altri esemplari di collazione, con l’aggiunta di ulteriori collazioni. Un capitolo importante, da questo punto di vista strettamente filologico, è l’esemplare della vituperata edizione aldina del 1515 della Commedia (ora BMLF, Antinori 260), sul quale Vincenzio Borghini fa convergere la collazione di dieci testimoni, tra cui il «Testo scritto a mano, d’Agnolo Borghini, del Cento». Per cui si può giudicare l’interesse dantesco di Vincenzio come una prosecuzione accumulativa di un esercizio già sperimentato da Agnolo e transitato da questo nelle mani del fratello superstite, diventando, oltre che dato emotivo, di partenza, modello di procedimento nella formazione della recensio, nella analisi della tradizione indiretta, nella inclusione, ai fini del restauro testuale, dei particolari linguistici e storico linguistici. Questa doppia pulsione metodologica ed emotiva, filologica e familiare, può ulteriormente adornarsi di un altro elemento significativo e contestuale: un esemplare della princeps aldina (Venezia, 1502), conservato nella Biblioteca Apostolica Romana (Barberiniano, CCC 1 18), riporta varianti marginali di Bartolomeo (o Baccio) Barbadori, possessore, tra l’altro, di un «buon testo» della Cronica di Giovanni Villani. Il notevole profilo filologico di Barbadori deve ancora essere scritto: scopritore di classici (Elettra di Euripide, assieme a Girolamo Mei) discepolo di Pier Vettori, dalla filologia classica era transitato alla letteratura volgare e aveva stretto legami di amicizia e di collaborazione con il Priore degli Innocenti. Con questo si ribadiscono, in Borghini e nella cerchia delle sue conoscenze, i segni di un rinnovato e consistente interesse prevalentemente filologico per il testo dantesco.
Carlo Delcorno
Il Parallelo dell’Alighieri e del Petrarca di Leonardo Bruni è preceduto da una rapidissima Notizia del Boccaccio, che tramanda una preziosa e indimenticabile testimonianza sulla sua intensa attività di copista e di editore. Il Bruni rinuncia a scriverne la biografia, mancandogli una adeguata documentazione, ma – aggiunge – «l’opere et i libri suoi mi sono assai noti, et veggio che lui[…] tante cose scrisse di sua mano propria che è una maraviglia».
Tra i molti autografi boccacciani hanno un posto di primissimo rilievo le copie delle opere volgari di Dante, raccolte in una sorta di canone che comprende Vita Nova, le quindici canzoni e la Commedia. Sono il ben noto manoscritto della Capitolare di Toledo (ms. 104.6) e il manoscritto attualmente smembrato nei due codici Chigiani della Biblioteca Vaticana (L.V.176 e L.VI.213), nel quale Boccaccio ha aggiunto una copia del Canzoniere petrarchesco.
La biografia di Dante – quella che si usa indicare col titolo Trattatello in laude di Dante – è stata concepita a modo di introduzione al poema dantesco: la si trova in copia autografa nei codici appena citati. La prima redazione, quella Toledana, è degli anni Cinquanta; probabilmente fu mandata al Petrarca nel 1359, di ritorno dalla visita nella casa milanese, ed era unita al carme Ytalie iam certus honos, che esaltava sì il poeta laureato, ma lo invitava ad accogliere e leggere Dante, aggiungendolo al numero dei classici.1 Petrarca rispose con la famosa Familiare xxi, 15 (“Ad Iohannem de Certaldo, purgatio ab invidis obiecte calunnie”): in essa egli dissipava le accuse di invidia nei confronti di Dante, al quale riconosceva la palma della poesia volgare (“vulgaris eloquentie palma”), lasciando però intendere chiaramente che la grande poesia non poteva esprimersi se non in latino.
La contraddizione tra la nobiltà dei contenuti della Commedia e la corruttibilità della mobile lingua volgare, insinuata da un pungente inciso proprio all’inizio dell’epistola, consegna al Boccaccio un problema tormentoso, che riguarda anche la propria esperienza di scrittore in volgare; e che non troverà mai una adeguata soluzione, se non in una immediata e inalterata ammirazione per il poeta che era stato la prima guida, il primo lume ai suoi studi giovanili.
La biografia e l’elogio di Dante non possono essere disgiunti dalla difesa della poesia, messa sotto accusa da coloro che la ritenevano «inutile, vana per le sue favole, pericolosa per le lascivie e gli elementi pagani di cui si diletta». Nella seconda parte del Trattatello, dove si tratteggia il ritratto fisico e morale del poeta, l’ethos (per usare il termine delle biografie antiche, che il Boccaccio riscopre), trova spazio una lunga digressione sull’origine e sulla natura della poesia, tutta sostanziata di idee che il Petrarca aveva fissato nella Collatio laureationis e soprattutto in quella epistola al fratello Gherardo (Fam. X, 4), che Boccaccio aveva attentamente letto e copiato nel soggiorno padovano del 1351.
Petrarca batteva in breccia gli oppositori della poesia stabilendo un’audace equivalenza tra poesia e teologia, fondandosi sull’identità dei procedimenti allegorici: «Parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo […] Quid vero aliud parabole Salvatoris in Evangelio sonant nisi sermonem a sensibus alienum, sive, ut uno verbo exprimam, alieniloquium, quam allegoriam […] nuncupamus?». L’origine e la storia della poesia è parallela a quella dei culti religiosi, ai quali è indispensabile l’uso di una parola ornata, musicalmente scandita, «procul ab omni plebeio ac publico loquendi stilo».
Adattando arbitrariamente alla poesia volgare ciò che il “magister” restringeva unicamente alla poesia latina, il Boccaccio enuncia questa dottrina nella biografia di Dante: «perciò che molti non intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un fabuloso parlare […] mi piace brievemente quella essere teologia dimostrare» (par. 137); la ripete nei libri XIV e XV della Genealogia, utilizzando peraltro i suggerimenti e le correzioni di Pietro Piccolo da Monteforte, e di nuovo vi torna nel commento alla Commedia, a proposito di Inferno I 73 (“Poeta fui”).
Vero è che Boccaccio, già a partire della seconda redazione del Trattatello, sfuma quell’affermazione («mi piace brievemente mostrare la poesì esser teologia, o, più propiamente parlando, quanto più può simigliante di quella») (par. 91); e nel commento alla Commedia si preoccupa di distinguere tra gli scrittori ispirati e quelli che poetarono «per forza d’ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i loro errori estimavano vero, sotto il velame delle favole ascosero» (I i 76).
Simonetta Mazzoni Peruzzi
Desidero anzitutto ringraziare vivamente la Presidente del Centro Scaligero di Studi danteschi, Albertina Cortese, per il gentile invito rivoltomi; ringrazio altresì, non senza una certa emozione trovandomi in una sede tanto illustre quale la Biblioteca più antica d’Europa, il Prefetto della Capitolare Mons. Alberto Piazzi. Consentitemi infine di rivolgere un pensiero e un ricordo commosso a Vittore Branca, che con tanta disponibilità volle accogliere le mie pagine corbacciane, avviando così la collana dei “Quaderni” da lui affiancata agli “Studi sul Boccaccio”.
I momenti privilegiati di colloquio (ricordo in particolare, oltre ai tanti incontri fiorentini e certaldesi, una sera d’inverno in una Venezia immateriale, fatta soltanto di luci e riflessi, e l’accoglienza affettuosa di Olga e Vittore nella loro bella casa prospiciente il ponte dell’Accademia) trascorsi parlando del mio lavoro sul Corbaccio, che Branca aveva letto con attenzione vivamente partecipe (conservo con cura il vecchio dattiloscritto, da lui fittamente postillato), restano per me una memoria indimenticabile quanto preziosa.
1. Gli enigmi del Corbaccio
Ma veniamo al nostro Corbaccio, opera comunemente definita, in passato, ‘bifronte’ (il che già è indizio della sua problematicità per la critica); opera difficile, dunque, che tanti interrogativi ha suscitato in passato, sino ad apparire fortemente enigmatica e a rimanere, per certi versi, indecifrata.
Questo accadeva, sostanzialmente, perché, se la critica in passato aveva accuratamente perlustrato molte aree letterarie pertinenti al Corbaccio, rilevando in modo esauriente influssi e presenze classiche, patristiche, ovidiane e dantesche che impreziosiscono, nei canoni consueti dell’intertestualità, il dettato boccacciano, come pure i fitti legami autoriali tra l’operetta e il Decameron, era rimasta praticamente inesplorata (al di là di certi macroscopici riferimenti, d’altronde abbastanza ovvii, al vasto filone misogino e antimatrimoniale di cui è permeata tanta parte della cultura medievale) una particolare zona di indagine, poi rivelatasi essenziale: quella, appunto, della letteratura francese.
E, ancor più precisamente, a chiunque si accingesse a tentare di sciogliere una volta per tutte gli enigmi corbacciani si imponeva di indagare su di una parte ben specifica di quella splendida e ricchissima letteratura (e così io stessa ho fatto, seguendo i forti e chiarissimi indizi che mi si sono immediatamente presentati, durante il percorso di ricerca sul Corbaccio); di indagare, cioè, su tutto quel vastissimo filone letterario che si definisce comunemente ‘comico-trasgressivo’ e che tanto profondamente caratterizza il medioevo francese.
Non appena avviate le ricerche, scoperte e conferme non si sono fatte attendere, e anzi mi sono giunte, vorrei dire, a valanga, offrendomi, al di là di ogni previsione, una messe abbondantissima, e tale da mutare radicalmente la prospettiva critica sull’opera, che può essere ormai definita, senza tema di smentite, uno straordinario esercizio di ardita sperimentazione linguistico-letteraria magistralmente condotto, da un artifex di prima grandezza come il Boccaccio, su molteplici livelli stilistici che perseguono un obiettivo di scrittura costantemente plurilinguistico.
E proprio questo è il punto essenziale: nel Corbaccio non esistono, come un po’ troppo schematicamente era stato detto in passato parlando di ‘bifrontismo’ corbacciano, soltanto due livelli stilistici, o due linguaggi; ne esistono invece molti, che investono e abbracciano i due sconfinati campi letterari della cortesia e dell’anticortesia, perché l’autore proprio in questo ha voluto cimentarsi, giocando la sua complessa partita su tutti i livelli ed i registri possibili, e consegnandoci in tal modo un’opera splendida per scintillante poliedricità, un’incredibile performance creativa veramente trascinante per il suo estremo e assoluto sperimentalismo.
Ma, certamente, è ben vero che nel Corbaccio si privilegia, o per meglio dire ha un estremo rilievo, l’area dell’anticortesia e del comico-trasgressivo, che può raggiungere toni coloritissimi di brutale realismo ed esasperato espressivismo linguistico; ed è proprio qui che il legame con la letteratura francese si fa più intenso e più forte.
Eppure, in passato questa massiccia presenza francese, notevole per la sua entità, tanto da risultare profondamente caratterizzante, non è stata adeguatamente percepita e tantomeno valutata: forse, anche, per la ragione che non si è tenuto il debito conto di un dato tanto ovvio e risaputo quanto essenziale, e cioè che la formazione culturale del Boccaccio fu caratterizzata da una fortissima impronta francese.
Il Boccaccio, come ben sappiamo, giunse nella Napoli angioina nel 1327, dunque quattordicenne; e per l’adolescente eccezionalmente dotato, così avido di letture e di conoscenza, così aperto ad ogni sollecitazione e stimolo culturale, fu un passaggio decisivo il poter crescere, culturalmente parlando, in un milieu assolutamente francese, quale la corte angioina, per di più usufruendo liberamente della ricca e preziosa biblioteca reale, sotto la guida del colto bibliotecario di Roberto d’Angiò, Paolo da Perugia.
Lucia Battaglia Ricci
Particolarmente suggestivo e intrigante parlare, in una giornata tanto intensa di implicazioni come la giornata internazionale della donna e in un ambiente tanto gravido di storia e tradizioni culturali come la Biblioteca Capitolare, delle donne del Decameron, visto che il Boccaccio ha, probabilmente per primo nella nostra cultura, guardato alla donna in una maniera nuova, modulando sull’articolata casistica di tipologie e di comportamenti che affolla le pagine del libro, la sua complessa e solo in parte convenzionale riflessione sull’universo femminile.
Basti pensare, riprendendo il filo del tema privilegiato per questo ciclo di lecturae Dantis, ovvero il rapporto tra Dante e Boccaccio, come su questo piano il rapporto che corre tra i due scrittori sia di totale difformità: la figura di Beatrice e le figure di donna presenti nelle opere dantesche non sono commensurabili su quelle del Decameron e in generale con quelle di Boccaccio. Non soltanto perché cambia tra i due il modo di pensare il mondo, ma perché cambia la prospettiva adottata per descrivere il mondo e il sistema di valori implicati. Di questi valori la donna è spesso, per Boccaccio, incarnazione: in positivo come anche in negativo. E non solo nell’opera maggiore.
Di donne sono piene infatti le opere di Boccaccio: a donne sono spesso dedicati i suoi scritti, e donne sono protagoniste dei suoi libri, dalle donne cortesi della giovanile Caccia di Diana alla terribile vedova del tardo Corbaccio, dalla iterata presenza della stessa donna – Fiammetta – in tante opere della gioventù alla galleria di figure femminili del De claris mulieribus, a comporre un universo variegato e complesso, che contiene anche figure di donna poco canoniche o poco frequentate dalla tradizione letteraria a lui coeva. Già nelle opere che precedono il libro di novelle si incontrano degli straordinari ritratti muliebri.
Così, ad esempio, nel Ninfale fiesolano, dove Boccaccio traccia ritratti e profili di figure femminili particolarissime, poco o affatto presenti nella nostra letteratura antica, se non in sinteticissimi e intensi particolari “catturati” dalla penna dell’Alighieri, che evocano vissuti e affetti familiari, quali – ad esempio – sant’Anna che è «tanto contenta di mirar sua figlia / che non move occhio per cantare osanna» (di Par. xxxii 134-35) o il «fantolin che ’nver la mamma / tende le braccia poi che ’l latte prese» (di Par. xxxiii 121-22).
Nel Ninfale compaiono due varianti tipologiche della donna-madre: la donna che ha appena partorito un bambino e la madre di un figlio adulto. Della drammatica storia narrata in quest’opera, ricordo solo i dati essenziali per il discorso che qui interessa. Il giovane pastore Africo, che vive coi genitori sulle colline di Fiesole, si innamora di Mensola, una giovane ninfa consacrata a Diana. Cerca a lungo, inutilmente, di vederla e di parlarle.
Il libro si diffonde nella descrizione delle pene d’amore del giovane. Con l’aiuto di Venere, potrà incontrarla di nuovo e, con uno stratagemma, riuscire a conquistarla: da questo rapporto nascerà un bambino. Mensola è descritta nell’atto di allevare amorosamente il piccolo appena nato, cercando in quel viso le fattezze di Africo, nel frattempo suicidatosi per l’impossibilità di vedere l’amata, succube della rigida regola di castità imposta alle ninfe consacrate a Diana.
E prima ancora sono descritte le varie reazioni dei genitori, che vedono il figlio affranto e dolente, chiuso nella sua sofferenza. Se il padre intuisce lo “strano male” che ha colpito il figlio, e con delicatezza e pudore cerca di intervenire con un discorso “educativo”, la madre di Africo, ignara ma attenta, confabula col marito per capire, gira intorno al figlio per consolarlo e, per sanare una piaga che le è in qualche modo sconosciuta, appresta «d’erbe gran quantità per un bagnuol».
L’attenzione prestata in quest’opera alla figura della madre è del tutto eccezionale e degna di un interesse maggiore di quello che le viene in genere tributato: certamente più nota è un’altra figura eccezionale di donna “creata” da Boccaccio negli anni che preludono al capolavoro novellistico: la Fiammetta impegnata a comporre, come autrice, l’Elegia di madonna Fiammetta, il primo libro della nostra letteratura dove una donna rivolgendosi alle donne parla di sé in prima persona, descrivendo e analizzando “dall’interno” le sue emozioni, le sue passioni, le sue angosce, la sua gelosia e le sue speranze.
Con la Fiammetta, composta verisimilmente verso il 1343-’44: ovvero poco prima del Decameron, Boccaccio si fa autore di una (pseudo)autobiografia al femminile: un’operazione assolutamente nuova, per la quale saranno stati importanti modelli storici reali, come Marie de France, e modelli letterari, dalla Francesca dantesca alle eroine della classicità investite del ruolo di scrittici nelle Heroides di Ovidio, cui un raffinato cultore delle pratiche dell’intertestualità quale egli è dà qui una vita e uno spessore emotivo-esistenziale nuovissimi.
1. Di donne, e di storie di donne, è pieno in particolare il Decameron, che alle donne è anche espressamente dedicato. Si tratta di una scelta cosciente, di cui l’autore dà conto nell’Introduzione alla quarta giornata, dove, per rispondere alle critiche di chi gli oppone che troppo le donne gli piacciono, narra una novella che esalta, come vedremo meglio più avanti, la forza vitale della naturale propensione maschile per il gentil sesso e dell’eros in genere, testimoniando così, al contempo, le radici ideologiche implicite nella scelta che lo ha portato a privilegiare, nel libro che ragiona sulle varie forze che muovono il vivere umano per fissare parametri critici di riferimento che consentano di rifondare le regole di quel vivere sulle rovine provocate dalla peste, il tema amoroso, offrendo una documentazione esemplare nella variegata e pressoché infinita articolazione dei casi narrati dalla lieta brigata riunita nello splendido giardino da lui costruito utilizzando materiali letterari e esperienza autoptica.
Il racconto che dà vita al libro inizia giustappunto con un gruppo di donne: le sette giovani che nella chiesa di Santa Maria Novella decidono di allontanarsi da Firenze dove la peste sta mietendo vittime all’infinito e soprattutto sta facendo “saltare” tutti i codici di comportamento e le regole morali condivise del vivere civile, per prendere quella gioia e quell’allegrezza che permetterà loro di sopravvivere alla morte rispettando, dice Pampinea, ragione e natura. E il libro si chiude con la storia di una donna straordinaria, quella di Griselda, su cui dovremo tornare più avanti. Non solo: il libro è dedicato alle donne, che sono, o dovrebbero essere, le lettrici ideali del libro. Ho usato il condizionale perché chi sia il vero destinatario del Decameron è problema critico rilevante, che è difficile risolvere in modo univoco, per la non univocità delle informazioni che, esplicitamente o implicitamente, l’autore offre al proposito. Da un lato, infatti, Boccaccio apre il libro osservando come, al contrario degli uomini che possono praticare varie forme di svago, «andare a torno, udire e vedere molte cose, uccellare, cacciare, cavalcare, giuocare o mercatare», le donne innamorate e afflitte non possano avere alcuna forma di consolazione per le loro pene d’amore, destinate anzi a rinforzarsi nel «piccolo circuito delle loro camere», nella autoreferenzialità dei loro pensieri oscillanti tra «malinconia» e «focoso disio», nella «grave noia» - «non rimossa» da «nuovi ragionamenti» - che da quei sentimenti scaturisce. E che appunto per queste donne afflitte da amore lui scriverà questo libro, pensato per offrire loro occasione di consolazione: «diletto» e, insieme, «utile consiglio». Si aggiunga che negli inizi delle novelle i narratori si rivolgono alla brigata non dicendo, come prevedibile per un gruppo composto di maschi e di femmine, “cari giovani”, ma, sempre, solo « donne», «amorose donne», «vaghe donne», «dilettevoli donne», «valorose donne», eccetera: privilegiando così la micro-brigata femminile, e investendo di nuovo le donne della funzione di destinatario privilegiato, in questo caso non del libro, sì piuttosto dei racconti in esso contenuti. Ma se le donne sono il pubblico cui espressamente, nei suoi interventi metatestuali come anche nella puntualità della messa in scena del “raccontare” che costituisce la struttura portante dell’opera, l’autore destina il Decameron, altro dice il libro da lui costruito per “editare” quella stessa opera. La particolare tipologia dell’edizione del Decameron curata da Boccaccio negli ultimi anni della sua vita – l’autografo del Decameron ora conservato a Berlino, Staatsbibliothek, ms. Hamilton 90 – non è coerente con le dichiarazioni programmatiche in esso contenute; in particolare con la dedica alle donne e la scelta di fare delle donne, appunto, il pubblico privilegiato dell’opera qui registrata. Il libro pergamenaceo che Boccaccio ha costruito attorno al 1370, scegliendo – certo consapevolmente vista la sua competenza editoriale e il cospicuo investimento economico che l’operazione richiede – un formato molto grande, è grosso, molto voluminoso e pesante, e, soprattutto, è costruito utilizzando un modello di mise en page che nel medioevo è tipico del libro scientifico-universitario.
Manlio Pastore Stocchi
Il punto di partenza di questa breve lezione può essere del tutto ovvio: è ben noto che Dante, Petrarca, Boccaccio hanno imposto alla cultura italiana, fino alle soglie dell’età moderna, modelli e leggi di lingua, di stile, di temi che quei tre grandi hanno in qualche modo elaborato e fornito in modo esemplare e definitivo con le loro opere. Secondo le epoche è stato più attivo l’uno o l’altro modello, ma si tratta certamente di presenze con cui dal Trecento in poi la cultura italiana ha dovuto sempre fare i conti, non soltanto con l’ammirazione riservata ai grandi scrittori, ma con l’ossequio dovuto ai grandi legislatori, in questo caso ai legislatori della letteratura.
E ciò ha comportato anche l’assunzione di Firenze come patria, in qualche modo, della nostra civiltà, come luogo donde essa ha tratto non solo origine attraverso questi sommi autori, ma ha ricevuto anche la norma della propria cultura: norma, come ho detto, linguistica, stilistica, tematica e così via.
Questo è un dato ben noto su cui non vale nemmeno la pena di soffermarsi, ma un’osservazione un po’ più accurata ci pone di fronte ad un singolare paradosso che non sempre è stato messo nel debito rilievo. Le “tre corone”, come poi è invalso l’uso di chiamare collettivamente questa terna di maestri, hanno avuto in realtà con Firenze rapporti estremamente drammatici, sicuramente non improntati affatto ad una sintonia piena e non mai increspata.
Pensiamo a Petrarca, che non è nominato nel titolo di questa conversazione, ma che è il punto di riferimento segreto di tutto il discorso. Petrarca rappresenta infatti il caso più estremo di rifiuto di Firenze. Tutti hanno in mente l’elogio di Foscolo (ne I sepolcri) a Firenze che, fra i tanti meriti, avrebbe anche quello di aver dato i cari parenti e l’idioma a quel dolce di Calliope labbro ecc. Questo è perdonabile a Foscolo come una sorta di licenza poetica, perché sicuramente i genitori di Petrarca, ser Petracco ed Eletta Canigiani, al loro figliolo non hanno parlato bene di Firenze. Erano profughi, vittime di un esilio ingiusto, insieme con Dante, e avevano, ancor più di Dante, sofferto della privazione di beni familiari che erano piuttosto cospicui: ser Petracco dovette riorganizzare la sua vita partendo, per così dire, da zero, e non trasferì affatto a Francesco, e Francesco ce lo fa capire in varie occasioni, alcun sentimento di affetto verso la città originaria.
Petrarca nacque casualmente ad Arezzo appunto durante questo girovagare inziale del padre. E quanto all’idioma, poi, tutto il lavoro assiduo di revisione, di assetto, di correzione delle proprie rime (è ormai dimostrato) Petrarca lo dedicò a crearsi una lingua tutta sua che molto attingeva al latino, ma era invece attentissima a rifiutare ogni inflessione troppo apertamente fiorentinesca; cosicché dei nostri tre grandi del Trecento il Petrarca è il poeta che nella sua lingua poetica meno risente dell’origine fiorentina.
Il punto di partenza di questa breve lezione può essere del tutto ovvio: è ben noto che Dante, Petrarca, Boccaccio hanno imposto alla cultura italiana, fino alle soglie dell’età moderna, modelli e leggi di lingua, di stile, di temi che quei tre grandi hanno in qualche modo elaborato e fornito in modo esemplare e definitivo con le loro opere. Secondo le epoche è stato più attivo l’uno o l’altro modello, ma si tratta certamente di presenze con cui dal Trecento in poi la cultura italiana ha dovuto sempre fare i conti, non soltanto con l’ammirazione riservata ai grandi scrittori, ma con l’ossequio dovuto ai grandi legislatori, in questo caso ai legislatori della letteratura. E ciò ha comportato anche l’assunzione di Firenze come patria, in qualche modo, della nostra civiltà, come luogo donde essa ha tratto non solo origine attraverso questi sommi autori, ma ha ricevuto anche la norma della propria cultura: norma, come ho detto, linguistica, stilistica, tematica e così via.
Questo è un dato ben noto su cui non vale nemmeno la pena di soffermarsi, ma un’osservazione un po’ più accurata ci pone di fronte ad un singolare paradosso che non sempre è stato messo nel debito rilievo. Le “tre corone”, come poi è invalso l’uso di chiamare collettivamente questa terna di maestri, hanno avuto in realtà con Firenze rapporti estremamente drammatici, sicuramente non improntati affatto ad una sintonia piena e non mai increspata.
Pensiamo a Petrarca, che non è nominato nel titolo di questa conversazione, ma che è il punto di riferimento segreto di tutto il discorso. Petrarca rappresenta infatti il caso più estremo di rifiuto di Firenze. Tutti hanno in mente l’elogio di Foscolo (ne I sepolcri) a Firenze che, fra i tanti meriti, avrebbe anche quello di aver dato i cari parenti e l’idioma a quel dolce di Calliope labbro ecc. Questo è perdonabile a Foscolo come una sorta di licenza poetica, perché sicuramente i genitori di Petrarca, ser Petracco ed Eletta Canigiani, al loro figliolo non hanno parlato bene di Firenze. Erano profughi, vittime di un esilio ingiusto, insieme con Dante, e avevano, ancor più di Dante, sofferto della privazione di beni familiari che erano piuttosto cospicui: ser Petracco dovette riorganizzare la sua vita partendo, per così dire, da zero, e non trasferì affatto a Francesco, e Francesco ce lo fa capire in varie occasioni, alcun sentimento di affetto verso la città originaria. Petrarca nacque casualmente ad Arezzo appunto durante questo girovagare inziale del padre. E quanto all’idioma, poi, tutto il lavoro assiduo di revisione, di assetto, di correzione delle proprie rime (è ormai dimostrato) Petrarca lo dedicò a crearsi una lingua tutta sua che molto attingeva al latino, ma era invece attentissima a rifiutare ogni inflessione troppo apertamente fiorentinesca; cosicché dei nostri tre grandi del Trecento il Petrarca è il poeta che nella sua lingua poetica meno risente dell’origine fiorentina.
Loggia del Mangano
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